
Un palmo di terra rossa
Un palmo di terra sotto i piedi è ciò che possiedo. E tra le ciglia, nei capelli. Sotto le unghie sfaldate dalla malnutrizione, sopra la lingua riarsa e gonfia. Un palmo di terra rossa. E una vecchia tanica di plastica vuota.
Non è sempre stato così. Prima avevo un marito, uno zebù, e un orto coltivato a tapioca. Poi l’orto si è seccato. Mio marito è morto quando l’uragano Batzirai si è abbattuto sull’hotel dove lavorava come stagionale. Lo zebù è servito a nutrire i miei figli, dopo, quando nemmeno le cavallette sono più tornate a saltare sulle zolle spaccate dei campi.
Non piove da quattro anni, qui nel sud ovest del Madagascar. Paghiamo lo scotto dell’avidità del mondo, noi che non abbiamo niente; il conto salato del benessere occidentale,che nasconde dietro le comodità e il consumismo sfrenato i difetti di un sistema infetto e autodistruttivo. La deforestazione selvaggia che il governo non ha saputo frenare in tempo ha fatto il resto. Le Grand Sud, lo chiamano i turisti, questo deserto cocente che avanza, mentre scattano foto alle nostre capanne di paglia e filosofeggiano sulla vita semplice e il nostro rapporto stretto con la natura. Ma di grande c’è solo la fame che fa contorcere lo stomaco, che toglie il sorriso ai bambini. E se la natura soccombe, anche noi siamo destinati a morire con lei.
Ho bollito delle foglie di cactus, le mastico lentamente mentre mi preparo ad uscire. Ci si abitua presto al loro sapore amaro, quando non c’è null’altro di commestibile in tutta la piana. L’occhio del giorno illumina l’orizzonte, si posa distratto sui volti stanchi che già percorrono la via dell’acqua. Siamo partiti prima dell’alba, con la complicità della notte, prima che lo sguardo implacabile del disco giallo che tutto sovrasta potesse asciugare le narici e dilatare le distanze. Al ritorno non saremo così fortunati. Man mano che ci addentriamo nel nulla, altri uomini arrivano da tutte le direzioni, si uniscono muti alla processione, scambiano cenni con la testa senza guardarsi troppo intorno. Altre donne dai parei colorati, con le spalle cariche di bottiglie, tirano per la mano bambini troppo piccoli per essere lasciati soli e troppo grandi per essere portati in braccio; o forse solo troppo assetati per poter aspettare quieti che la loro madre torni a casa. Condividiamo tutti la medesima sorte, la quotidiana ricerca dell’acqua che ci farà sopravvivere fino a domani. Nessuno augura manao ahoana, buongiorno, al sorgere del sole. Camminiamo insieme per cinque chilometri tra campi appassiti di spine; e tamarindi dai rami spogli, artigli contorti pronti ad afferrare il tetto di Dio e farlo in pezzi. Gli zoccoli degli zebù dalle gobbe scheletriche sollevano nuvole di polvere nell’incedere lento della carovana, tra le ruote dei carretti colmi di barili vuoti, tra gambe magre e ginocchia ossute, a centinaia, che avanzano senza fretta e senza sosta. Cinque chilometri in silenzio, con mia figlia avvolta nella fascia di tessuto appesa al collo, la sua guancia poggiata sul mio petto. Si chiama Fahagagana, miracolo, la più piccola della famiglia, nata nell’ultimo giorno di pioggia. Ma nessun dio compie più miracoli nella terra alla fine del mondo. Nessun dio si fa più sedurre dalle danze propiziatorie, o forse noi ci siamo dimenticati i passi.
Potrei fermarmi qui. Potrei camminare fino a quel baobab e distendermi tra le sue radici, stare al riparo della sua ombra fino a diventare io stessa corteccia e linfa. Ma ho promesso. Devo assolvere al mio compito, e tornare a casa.
Finalmente in lontananza scorgiamo le anse sinuose del fiume in secca. Un tempo il Mandra-Reera così largo che neppure le braccia di cento uomini forti sarebbero bastate per toccare le due rive. Ora è poco più che una vena esangue nel braccio di un moribondo, e il flebile flusso scompare come inghiottito dal suolo. Scaviamo pozze nella sabbia, a mani nude, raccogliamo l’acqua scura che risale in superficie. Sa di terra rossa, come l’aria, come il cibo. Non abbiamo tempo di bollirla, non possiamo permetterci di aspettare oltre. Mettiamo in corpo tutto quello che lo stomaco riesce a trattenere. La mia bambina beve avidamente la ciotola che le porgo, a occhi chiusi, si addormenta di nuovo. E io vorrei piangere, ma non posso permettermi di sprecare anche solo una goccia di prezioso liquido, neppure per sfogare il dolore.
Mentre noi terminiamo il nostro compito, là dove lo sguardo incontra cielo e terra il tiomena, la tempesta di sabbia, sta inghiottendo la terra e cancellando il cielo. Devo affrettarmi prima che ci raggiunga. Con i denti strappo un lembo della bustina di burro d’arachidi che i volontari del Piano Alimentare Mondiale hanno distribuito qualche giorno fa al villaggio, omaggio di quella stessa civiltà che ha decretato il nostro destino con la propria ingordigia. “Tieni, Faha”. La scuoto con dolcezza. Mia figlia si desta di nuovo, la prende, succhia lentamente, si aggrappa alla mia schiena. La lego stretta come per non perderla, ma so che non basterà se non sarò in grado di nutrirla.
Riempio la tanica, la sollevo sulla testa. Il suo peso durante il viaggio di ritorno sarà dolce, perché significavita.
Almeno per un altro giorno.
Maena Delrio