Si può riutilizzare. Mi è venuta un’idea…

3.6
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Era un ricordo sbiadito ma allo stesso tempo ben nitido fissato nella sua mente. Lei, poco più di tre o quattro anni, piccolina ma curiosa seduta sulla sua sediolina nel cortile sotto casa insieme alla nonna, alla mamma e alle altre vicine. Ognuna intenta ai propri lavori: c’era chi lavorava all’uncinetto, c’era chi lavorava l’intaglio, chi rammendava calze e chi semplicemente stava raccogliendo pazientemente il filo in un gomitolo con uno strumento strano, un pò buffo con quelle sue braccia aperte che sostenevano la matassa, che girava e girava in continuazione. Ogni tanto si fermava quasi a voler prendere fiato e poi riprendeva la sua corsa. Anche il nome era altrettanto buffo e lei, piccolina com’era, ancora non lo riusciva a pronunciare bene “arcolaio” – le aveva detto la nonna, aggiungendo – “e serve a dipanare la matassa, a ricavarne dei gomitoli di filo”. Lei aveva provato a ripetere lentamente “arco – raio” ma faceva fatica e poi era distratta dalla sua sediolina nuova che nonna aveva realizzato da un vecchio pneumatico della macchina venduta appena qualche settimana prima.

Beatrice rimaneva incantata dai movimenti della nonna che da un semplice filo e un uncinetto riusciva a creare dei disegni, delle fantasie e delle forme tutte particolari. Poteva restare ore ed ore a guardarla mentre da quel filo che scorreva e da quel bastoncino che si muoveva insieme all’indice della nonna veniva creato un merletto, un centrino o una mattonella di filo. La nonna le aveva promesso che prima o poi glielo avrebbe insegnato. “Fra qualche annetto, quando sarai più grande … per ora osserva e impara” – le aveva detto. E lei, da bambina ubbidiente com’era, aveva osservato attentamente fino a quando, un giorno finalmente, la nonna le insegnò come tenere l’uncinetto e il filo, come muovere il polso e le dita, come fare la catenella. Certo i primi punti di catenella erano un poco sbilenchi … strani … indefiniti e decisamente non uniformi: alcuni grandi, altri più piccoli e stretti, altri un po’ tirati. Bea aveva sbuffato e la nonna l’aveva rassicurata subito – “tranquilla, devi solo prendere un po’ di confidenza con il filo, saperlo delicatamente e lasciarlo scorrere lungo il dito, senza tirarlo nè troppo né poco. Vedrai che poi tutto verrà da sè” – le aveva detto con quella sua voce rassicurante, e Beatrice sapeva che era vero. Con impegno, piano piano i punti di catenella divennero regolari, tutti della stessa forma e dimensione, sempre più perfetti. Beatrice era enormemente felice. E anche la nonna. Per esercitarsi aveva trascorso ore e giorni seduta accanto a lei in cortile nelle tiepide giornate di maggio, una volta finiti i compiti. Lì seduta sulla sua seggiolina verde si era esercitata con metri e metri di catenella … e tanta pazienza! Aveva perso il conto di quanto fosse lungo il filo lavorato quando la nonna un giorno disse “Brava, Bea del mio cuore, finalmente hai imparato a fare la catenella! Adesso dobbiamo passare ai bastoncini…” – e iniziò a scucire la catenella che aveva fatto per avvolgere il filo nel gomitolo. “Nooonna… ma cosa stai facendo? – gridò Beatrice incredula – “perché stai scucendo tutta la mia catenella? E cosa sono questi bastoncini?”. “Mia cara Bea” – rispose la nonna con molta calma – “non vorrai mica fare catenelle tutta la vita! Adesso devi imparare i vari punti: punti alti, punti altissimi o punti bassi e punti bassissimi; per cui riavvolgiamo tutto il filo, iniziamo da capo” – le spiegò senza scomporsi troppo. “Va bene nonna ma perché devi per forza scucire tutto? Non possiamo semplicemente cominciare un nuovo lavoro per fare questi punti?” – chiese lei con la sua vocina. “No, tesoro mio. Non possiamo buttare questo filo anche se ti sembra un pò stropicciato… è comunque buono da riutilizzare. Anzi si deve riutilizzare… non bisogna sprecare nulla” – e così dicendo continuava a scucire il filo e a riavvolgere il gomitolo che diventava sempre più grande. La mamma di Beatrice lì accanto a loro la prese subito in giro “Eccola lì, Penelope!” – disse e si misero tutti a ridere. “E adesso, chi è Penelope?” – chiese Beatrice con la sua espressione curiosa – “la nonna si chiama Maria”. “Certo, tesoro ma Penelope era la moglie di Ulisse che di giorno tesseva la sua tela e di notte la disfaceva prendendo così in giro i suoi pretendenti.” – le spiegò la mamma. “Ahhhh, bene quindi anche Penelope risparmiava sul filo…. non voleva essere una sprecona” disse Bea. La mamma sorrise e le disse “In verità per lei era al contrario, a lei serviva tempo perché stava aspettando il ritorno a casa del suo Ulisse”. Beatrice la guardò perplessa; non ci capì un granchè e pensò tra sé che gli adulti erano proprio strani e continuò a concentrarsi sulle mani della nonna e sul gomitolo che cresceva di dimensione. Beatrice aveva visto molte volte la nonna unire delle pezze di stoffa con l’uncinetto, con un piccolo merletto, o mettere una toppa con un rammendo veloce lavorando con ago e filo. Lei riusciva a rendere bella ogni cosa che toccava e ogni volta diceva “vedi, basta poco? Sembra come nuovo!”. E lei, piccolina, osservava curiosa e incantata. “Ogni cosa ha un suo valore e non è detto che col tempo lo perda, anzi…” le ricordava la nonna. Il suo motto era “si può riutilizzare”. Infatti, nel cortiletto davanti casa, dove di solito si riunivano nel pomeriggio, aveva realizzato la sua sediolina con uno pneumatico vecchio. Dapprima l’aveva lavato e ripulito con cura e poi verniciato di verde e infine, con l’aiuto di Nonno Bruno, aveva forato con un trapano tutto intorno e aveva fatto passare pazientemente uno spago, abbastanza grosso e resistente, da un foro all’altro e aveva creato, con una trama bella fitta, la seduta; proprio come le sedie di legno che stavano in cucina. Lì accanto, con un altro pneumatico invece avevano realizzato un tavolinetto, coprendo il foro centrale con un pezzo di compensato rotondo verniciato, sempre di verde. Nonna amava i colori ed era una donna molto creativa. Beatrice amava i suoi lavori e ben presto ne avrebbe condiviso la passione facendo suo il motto di nonna Maria a cui aveva aggiunto “nonna, mi è venuta un’idea”. Tutto era cominciato quella volta, un sabato mattina, in cui era andata a giocare al parco con Etta.

Beatrice aveva accompagnato la mamma a fare le commissioni in giro per la città senza fare storie perché sapeva che, come “ricompensa” – così le aveva detto – poi sarebbero andati al parco dove avrebbe incontrato le sue amichette. Quella mattina Bea aveva portato con sé il suo pelouche preferito, la scimmietta Etta, sua inseparabile amica e compagna di avventure, come spesso capitava. Etta le somigliava un po’, come Bea anche Etta aveva gambe e braccia magre e lunghe e tutte e due condividevano un sorriso dolce e furbetto allo stesso tempo. Arrivate al parco la mamma le aveva detto “lascia Etta qui, con me, sulla panchina oppure mettiamola nello zaino così tu puoi giocare libera” ma Bea aveva insistito e quindi Etta era salita con lei sullo scivolo, aveva dondolato con lei sull’altalena tra grandi risate e aveva attraversato in bilico il ponte tibetano ed insieme avevano anche saltato la campana. Infine, era salita insieme a lei sulla giostra e lì era accaduto l’irreparabile; proprio mentre la tazza stava girando Etta era scivolata dalle braccia ed era rimasta incastrata a metà nel meccanismo. Cercando di liberarla, Bea aveva tirato un po’ più forte e alla fine le si era staccato il braccio destro. Beatrice aveva spalancato gli occhi tenendo Etta tra le mani … guardava la sua scimmietta senza braccio ed era scoppiata subito a piangere. Appena la giostra si fu fermata saltò giù di corsa verso la mamma. Le mostrò Etta e, tra le lacrime che le scendevano a dirotto sulle guance, riuscì solo a dire “il braccio è ancora incastrato in mezzo alla tazza”. La mamma cercando di consolarla la prese in braccio e le disse “non piangere Bea, io so come si può sistemare tutto. Anzi chi può sistemare tutto. Non ti preoccupare … andiamo subito da nonna Maria. Lei troverà una soluzione”. Tra le lacrime, Bea accennò un timido sorriso. Lei sapeva che la nonna avrebbe risolto tutto.

Ed eccola lì nonna, in giardino intenta a curare i suoi cactus tra i sassi sapientemente sistemati a formare forme geometriche ben definite, i suoi ciuffi di basilico e menta e un vaso panciuto che cadendo si era rotto… ovviamente nonna non l’aveva buttato ma gli aveva dato nuova vita sistemandolo a terra in giardino, riempiendo le due metà con un po’ di terra e piantandoci dentro dei cactus. Nonna aveva davvero una grande fantasia! Appena capì cosa fosse successo, nonna aveva subito indossato gli occhiali per analizzare meglio il pelouche che adesso giaceva disteso sul tavolo, quasi fosse un tavolo operatorio, pronto per essere operato. Lo osservò con attenzione, lo prese in mano, lo girò da un lato e poi dall’altro in silenzio totale. Bea la guardava in attesa di una risposta e alla fine nonna le disse “tranquilla, Bea del mio cuore… ho la soluzione”. Andò nell’altra stanza, aprì un cassetto e tirò fuori una piccola cassettina, un barattolo di latta a dire la verità. Dentro era pieno di bobine di filo di ogni colore, aghi di varie misure infilzate su un cuscino di stoffa color rosso pomodoro, ditali color argento e un lungo metro accuratamente avvolto su sé stesso. Il cassetto invece era pieno di stoffe di tutti i colori e varie fantasie, anche queste erano piegate e sistemate con cura, divise per colori. Erano vestiti, camicie, gonne e anche maglioncini che nonna non usava più ma che erano ancora in buone condizioni, non sciupate. Le aveva lavate, piegate e messe da parte e a volte le usava per dei lavori di rammendo o per sue creazioni. Le prese una ad una e le sistemò sul tavolo da lavoro accanto a Etta. “Allora piccola mia” – disse nonna con voce calma – “non ti preoccupare, possiamo rimediare al danno. Vedi tutte queste stoffe qui? Scegline una … quella che ti piace di più e io proverò a ricostruire il braccio di Etta. Con la stoffa creerò una sagoma che poi riempirò con dell’ovatta e cucirò al posto di quello vecchio”. Beatrice non aveva ben capito cosa nonna volesse fare ma si fidò. Iniziò a guardare le stoffe, osservò i colori e le fantasie. Fece scorrere il suo dito lentamente tra i mucchietti di stoffe e poi a un certo punto si fermò. Era una camicetta di nonna, gialla con dei piccoli fiorellini verdi e rosa. “Questa mi piace” – disse Bea e nonna aggiunse subito “credo sia la stoffa giusta per poter ricostruire il braccio di Etta. Ottima scelta. Mettiamoci al lavoro”. Prese il metro dalla scatola e iniziò a prendere le misure del braccio sinistro della scimmietta. Prese poi la stoffa che Bea avevo scelto e con uno strano gessetto iniziò a tracciare delle linee, con la forbice ritagliò la stoffa, andò velocemente alla macchina da cucire, la azionò e in men che non si dica era già tornata. Aprì un altro cassetto e tirò fuori dell’ovatta. Iniziò a riempire la stoffa che aveva unito ai due lati; sembrava un tubo chiuso ad un’estremità. Si fermò un paio di volte e osservò il braccio del pelouche, lo confrontò con quello di stoffa e alla fine, quando le sembrò di avere la stessa grandezza e dimensione, prese un ago, appoggiò il braccio alla spalla di Etta e iniziò a cucire delicatamente. Bea la osservava senza parlare. Nonna si muoveva con sicurezza e precisione, come fa un chirurgo in sala operatoria e in meno di un’ora Etta aveva nuovo braccio. “Vedi, Bea del mio cuore, basta poco!” – le disse con un bel sorriso indicando Etta che adesso era seduta sul tavolo appoggiata alla latta di nonna. Sorrideva anche Etta, felice per il suo nuovo braccio. “Cosa ne pensi? Non sembra perfetta?” le chiese nonna. Beatrice si avvicinò e prese il pelouche subito in braccio “credo che non si potesse davvero fare di meglio, nonna. Adesso la mia Etta è unica … diversa da tutte le altre scimmiette che vendono nei negozi! È diventata più bella” – e la strinse a sé. La nonna guardò entrambe e propose “che ne pensi se con la stessa stoffa creiamo un bel fiocco per capelli? Anzi due… uno per te e uno per lei?”. Beatrice stringeva Etta felice tra le sue braccia. La proposta era davvero interessante e disse “sì, mi piace questa idea”. E questa volta senza bisogno di metro e gessetti, la nonna prese velocemente dei ritagli di stoffa e con un movimento rapido di ago e filo giallo realizzò due fiocchi. Uno lo cucì accanto all’orecchio della scimmietta e uno, attaccato ad un elastico, lo diede a Beatrice che, con un grande sorriso, le buttò le braccia al collo e riempiendola di baci le disse “nonna, sei fantastica!”. Adesso lei ed Etta potevano indossare lo stesso fermacapelli.

Quello fu il giorno in cui Beatrice capì tre cose:

1. la nonna era davvero brava a risolvere problemi

2. la nonna aveva una fantasia e una creatività senza confine

3. la nonna aveva ragione: le cose possono acquistare un nuovo valore

Da quel giorno in poi quando capitava che qualcosa si rompeva o si sciupava Beatrice cercava di dare una nuova vita a quell’oggetto. A volte da sola, a volte con l’aiuto della nonna… e così, ad esempio, il suo jeans preferito che si era strappato cadendo in cortile durante la ricreazione, con uno squarcio bello evidente proprio sul ginocchio, diede vita a due nuovi oggetti: la nonna l’aveva tagliato e trasformato in un borsello. Aveva cucito le estremità e poi, proprio in corrispondenza dello squarcio, aveva messo una bella cerniera. Invece, un altro pezzo di jeans era diventato una piccola borsa che lei portava sempre a tracollo quando usciva con le sue amiche e che le ricordava le parole di nonna “Ogni cosa ha un suo valore e non è detto che col tempo lo perda, anzi…”.

Antonella Gioitta

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