Resplendor

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Vedo i miei genitori sparire tra gli alberi, ma io continuo a fissare il vuoto. Lacrime calde, come la sera afosa, iniziano a rigarmi il volto minuto, mentre io rimango inerte. Mia sorella, rimasta accanto a me, se ne accorge. “Perché piangi?”, mi chiede. Il suono acuto dei miei singhiozzi risuona nell’utilitaria, mentre, all’esterno, le intricate nuvole di fumo atro vengono spinte dai 47 km/h di scirocco. Gli odori acri, provenienti dal bosco ormai arso, ci raggiungono nell’automobile. Stretta in un familiare abbraccio, riesco finalmente a riacquisire una misera dose di tranquillità. Intanto, colonne di gocce azzurre si levano dal sentiero, ancora cinto dal verde. Proprio da quel viottolo, cha ha inghiottito i nostri genitori, trascinandoli nel buio scarlatto, si stagliano adesso, dopo interminabili minuti, tre figure svelte. Sono loro due, illesi, che discutono vivacemente con un agente. Entrando nell’auto, percepiscono il mio stato d’animo e chiedono a mia sorella che cosa fosse successo.

«Quando vi ha visti andare via si è messa a piangere».

«Avevo paura», mi giustico io, mentre i singhiozzi risalgono lentamente la mia gola, nonostante i vani tentativi di arrestarli.

La nostra proprietà è, in parte, salva dal grande incendio.

59°36′09’’N 15°12′47’’E

Dalla finestra situata a destra del letto, nella spoglia e bianca stanza numero 54 dell’ospedale di Lindesberg, si sarebbe potuto scorgere solamente quel condominio azzurro con una manciata di appartamenti, affiancato da alcuni casolari di mattoni, simili alle costruzioni adiacenti ai centri commerciali delle città metropolitane. Le abitazioni erano ubicate oltre un’aiuola, nella quale dimorava solo una decina di piante, ormai rinsecchite dall’aria secca o inaridite dal gelo, fiancheggiate da una strada di asfalto scuro e due file di parcheggi, perpetuamente occupati da schiere di automobili dai colori sbiaditi. Il tramonto si irradiava in lontananza, a una distanza che appariva remota anni luce. Desiderai essere in uno qualsiasi di quegli alloggi, poter attraversare le stanze in cerca di un qualunque oggetto di uso quotidiano perennemente smarrito e accarezzare distrattamente l’arredamento: la semplicità assuefatta di un gesto ignaro, tanto apparentemente superfluo quanto di sostegno. Probabilmente, se avessi potuto, avrei barattato ciascuno dei pochi ed effimeri oggetti in mio possesso per provare la latente energia liberata dalla discreta, fresca salute, che si manifesta nei sorrisi per le più disparate sciocchezze o nella diffusa sensazione di calma e comodità di quando ci si siede su un divano, portando le gambe al petto e radunando le idee. Invece, dentro la sterile camera vi era un tavolo a due posti senza sedie, la mancanza delle quali sembrava non essersi mai manifestata, un armadietto a due ante (i cardini della destra erano parecchio rumorosi nonostante fossero arrugginiti solo in superficie), un bagno ampio, ma che dava l’impressione di essere ventilato da continue, numerose e impercettibili raffiche di vento scirocco, un televisore 16 pollici privo di telecomando, un orologio da parete dalle misure talmente sproporzionate da apparire caricaturale, un comodino e due letti: quello accanto alla porta, la quale era guarnita da un grande e verde maniglione antipanico, era sprovvisto di cuscini e coperto da un fine lenzuolo bianco di poliestere. E quando il mio sguardo si adagiò, esausto, sul mio braccio destro, era ancora incredulo. I due sottili tubicini che partivano dalle sacche che pendevano sulla testiera del letto erano ancora lì, immutata la franchezza con cui scomparivano nel bendaggio di garza bianca. La sensazione di vertigine prese il sopravvento sul flebile desiderio di raggiungere il cellulare, abbandonato sul comodino, allo scopo di ricavare informazioni riguardo data e ora. Per l’ennesima volta, mi domandai se tutto ciò stesse veramente capitando proprio a me e mi chiesi, ancora, come fosse stato possibile che fosse accaduto così rapidamente; bramai una soluzione, una misericordiosa magia, che mi avrebbe permesso di svegliarmi nel mio stretto e candido letto, scoprendo con sollievo che le ultime settimane erano state solo un brutto, orribile incubo. Doveva essere tarda sera, realizzai, ricordandomi dell’occlusa vista del tramonto. Mi rannicchiai contro la parete, mentre l’ombra della fredda notte svedese iniziava ad incombere, lentamente e voracemente, su di me.

22°58′17’’S 43°01′54’’O

Se qualcuno mi avesse chiesto quale sarebbe potuto essere il luogo più bello al mondo e quale posto considerassi il mio preferito, ci sarebbe stata un’unica risposta ad entrambe le domande. Solo in prossimità della Praia de Itacoatiara l’Oceano Atlantico naufragava nella più vasta policromia. Le minute increspature dell’acqua, progressivamente verde lime, oliva e menta, dovute alla lieve brezza, si rincorrevano, infrangendosi sulla stretta striscia di sabbia, direttamente adiacente ai sentieri boschivi, contorcendosi prima di trasformarsi in spuma nivea e schizzi argentati. Oltre la magica insenatura incastonata tra le rocce, gremite di muschio e morbida erba, le onde più insistenti, accarezzate da luce dorata, la quale le rendeva analoghe a raso celeste, rivelavano la profondità dello scorcio di mare. Seppure la conformazione della sabbia venisse frequentemente mutata dalla brezza notturna, più tesa, l’aspetto della superficie dell’acqua era perennemente in evoluzione: a prima vista incessantemente simile, tuttavia mai uguale, alla precedente versione di sé stessa o a quella di qualunque altro istante rubato per ammirare l’oceano. La vita a Niterói era tranquilla: pacifica, quasi monotona; potrebbe anche venire definita “noiosa”. Le mie giornate erano caratterizzate dallo studio, la lettura, un po’ di aiuto alla mia famiglia nella cura delle nostre proprietà agricole, qualche pomeriggio trascorso con gli amici e, soprattutto, brevi passeggiate solitarie, a seguito del calar del sole, nei boschetti ombrosi, al riparo dai turisti che affollavano il piccolo quartiere, boccheggianti per l’imperituro calore del sottovalutato clima brasiliano. Considero gli anni in cui ho vissuto a Itacoatiara idilliaci: esattamente, come da definizione, “sereni, privi di ansie e caratterizzati da un intimo contatto con la natura agreste”. Ciononostante, il significato della parola, secondo il vocabolario, non può, decisamente, essere esteso al periodo successivo all’Amplo Incêndio.

59°36′09’’N 15°12′47’’E

Scossi il capo, cercando di liberarmi dalla cupa nebbia che avvolgeva i miei, sempre più frequenti e intermittenti, periodi di riposo, durante i quali i miei sensi precipitavano nel regno delle ombre, nonostante io fossi cosciente della realtà che ancora mi circondava: le lenzuola di cotone, che le mie dita sfioravano; la fresca aria che aleggiava sul mio collo, come il cencioso respiro di un benevolo drago ibernato tra i ghiacci; i morbidi cuscini che le mie ciglia accarezzavano, scandendo con il loro lieve tremore i periodi occupati da brandelli di sonno. Aprii lentamente gli occhi, le palpebre pesanti come coperte di lana vergine. Osservai la porta del bagno con sguardo speculativo, seppure a tratti assente, perso nel vuoto che mi separava dalla toilette. Dopo una decina di minuti, ciò che restava della mia forza di volontà vinse l’inerzia: lentamente mi sollevai, aggrappandomi al bordo del letto, mentre i miei piedi raggiunsero il pavimento freddo, non lambito per ore, in cerca delle piccole ciabatte di gomma.

Al ritorno dal bagno, il mio sguardo si posò sulla cartella attaccata ai piedi del letto: uppgivenhetssyndrom, le lettere appuntite e forzate fuori dal rigo, l’inchiostro nero come l’angoscia o il più aspro sollievo che talora accompagnano una diagnosi. O l’oscura, sincera perplessità: poiché l’ampio lemma non rientrava nelle poche parole in svedese che avevo assimilato attraverso l’ascolto distratto, cercai di scomporre la parola per trovare delle assonanze con dei vocaboli inglesi. Il significato di syndrom non poteva essere distante da quello dell’inglese syndrome, così come uppgiven appariva l’insulso artefatto di un impiastro che si era divertito ad invertire il verbo fraseologico to give up, “rinunciare”, forse nella misera speranza di ribaltarne anche il significato, aggiungendo, per errore, una seconda p. Se avessi potuto scegliere, avrei aggiunto un’altra g al posto della p, la quale mi sembrava troppo affine al nome di una malattia: studiando l’inglese avevo notato come la maggior parte delle parole relative all’essere ammalati fossero presenti nelle pagine del vocabolario destinate alla sedicesima lettera dell’alfabeto. Pill, pharmacy, pillow, petulant… Quell’hets restava un arcano, capace di confermare oppure smentire le ipotesi dedotte audacemente finora. Sollevai il cellulare e digitai la parola. La pagina del browser recitava la frase “Sindrome da Rassegnazione”. Posai il dispositivo e richiusi gli occhi sul cuscino, sprofondando dopo qualche minuto in un sonno inquieto.

22°58′17’’S 43°01′54’’O

Osservai i colori del tramonto venire sfumati da un diafano pennello di luce: il cremisi accarezzava la superficie scura del mare; similmente a una tela strappata da Lucio Fontana, il rosso lasciava trasparire linee corallo, adagiate su un celato dipinto dallo sfondo dorato, il quale sembrava essere stato impresso con tonalità plumbee da Caravaggio. Stavo trascorrendo i minuti che presagivano l’approcciarsi delle 18 in giardino, mentre il vento sembrava consultare le pagine del libro che avevo sistemato accanto a me, sulla piccola panca addossata al muretto di pietra. Quando attraversai la porta di vetro che conduceva direttamente al salotto, il cellulare di mia madre iniziò a squillare. Dopo aver risposto, le consegnai il telefono, mentre mio zio, dall’altro capo della linea, con il respiro affannato per l’agitazione, ci informava che un incendio nella proprietà adiacente alle nostre si stava espandendo, trasportato dalla burrasca a favore. Riagganciammo e componemmo il numero dei vigili del fuoco, nonostante fossero già stati chiamati a intervenire. Avevo spesso sentito dire che, talvolta, l’attesa può sembrare interminabile; in questo caso, decorsero quasi cinque minuti di incessante musica d’attesa (croce e delizia offerte dai servizi telefonici) prima che un operatore ci confermasse la tempestività delle precedenti segnalazioni, ciononostante raccogliendo anche la nostra. Dopo una decina di minuti, la nostra automobile si allontanò dalla strada adiacente alla casa, con a bordo i miei genitori: avrei voluto andare con loro; tuttavia, per non rallentare la corsa verso il luogo dell’incendio, rimasi a casa. Rientrando nell’abitazione, attraversai il soggiorno e mi sedetti a terra. Chiusi gli occhi, appoggiando il capo sul vicino divano, mentre le lacrime mi pungevano la gola, irrequiete, similmente alle raffiche d’aria all’esterno e alla costante collisione delle onde, sulla battigia in lontananza, affine alla mitologica melodia delle Fiestas de Hadas.

59°36′09’’N 15°12′27’’E

Imponenti sbuffi di fumo si levavano dal tetto di legno, inchiostro color pece sovrapposto al chiarore della luna. Il vento depositava la fuliggine sui fiori di agapanto, unico ornamento dell’uscio, macchiandone i petali bianchi e tingendo quelli lilla, come in una parodia nefanda di un dipinto di Kandinskij. Stavolta, tuttavia, Guernica sembrava antecedente al Primo acquerello astratto. Mi resi conto di stare sognando la notte del Groot Vuur: l’incendio che divampava, la fuga dal lato est alla parte ovest della modesta casa, le nostre ombre allungate in contrasto con il colore acceso delle fiamme, le urla che superavano il frastuono dell’arredamento divorato dal fuoco, la foschia che sostituiva ogni sfumatura accesa con le tonalità del grigio, la porta che era dall’altra parte… «Dall’altra parte!». L’aria notturna, carica di umidità, mi sferzava il viso, pungente come il sollievo di essere, ancora una volta, tutti insieme. Presto, dopo aver caricato sulla familiare autovettura ciò che restava dei nostri averi, abbandonammo Globershoop alla volta di Soweto, credendo di poter lasciare i brutti ricordi tra le macerie dell’abitazione che ci apparteneva. Quando, in seguito, arrivammo in Svezia, adocchiai il titolo del libro sulla lotta contro il cambiamento climatico dell’attivista Greta Thunberg, esposto nella vetrina di una libreria: “La nostra casa è in fiamme”. Realizzai che, nonostante fossimo fuggiti dalle violenza delle gang criminali e avessimo trovato rifugio in una township in attesa di abbandonare il continente, non c’era modo di scappare dalla distruzione del fuoco generato dall’essere umano. Sapevo di stare ancora sognando; ciononostante, mentre le immagini sfocate delle fiamme si susseguivano, ero consapevole che il peggiore incubo resta quello che è la realtà.

22°58′17’’S 43°01′54’’O

Scoccata la mezzanotte, i roghi accarezzarono anche i primi secondi del 26 luglio. Tutti erano ancora all’opera per cercare di domare le fiamme. Essendo lo scenario troppo buio, i canadair non avevano potuto alzarsi in volo: una coincidenza infausta o il frutto di un accurato e scellerato calcolo? Scrutai l’orizzonte: dove una volta i campi sembravano essere stati colorati da una decina di diversi pastelli verdi, ora la montagna brulla, illuminata dalla pallida e sfocata luce lunare, era dipinta di marrone, frutto del giallo e del rosso aspro del fuoco, mentre il blu dell’oceano, con le sue onde chiare, campeggiava come vernice rovesciata involontariamente su un quadro espressionista.

Strinsi le ginocchia al petto mentre, in televisione, veniva trasmesso il servizio del notiziario dedicato all’incendio. La visione ai lati dei miei occhi era già offuscata quando accostai il capo alla spalliera del divano.

Sbattendo repentinamente le palpebre al suono di una chiave che girava due volte nella serratura, captai qualche immagine della mia famiglia, percependo l’odore acre del fuoco sui loro vestiti. Intanto, il telegiornale mostrava ancora le immagini brutali delle decine di ettari distrutti: le istantanee di una distruzione di cui si sarebbe discusso a lungo.

59°36′09’’N 15°12′47’’E

Le lievi goccioline di pioggia si adagiavano sui vetri esterni delle ampie finestre, comparabili alla rumorosa precipitazione di una moltitudine di lapilli cristallini, affannate nell’ultimo round della loro competitiva corsa verso il suolo. L’orologio sulla parete segnava le 15:21; la mattina era stata occupata dalle visite, dei dottori e della mia famiglia. Il periodo scolastico era già iniziato; tuttavia, io avrei soggiornato ancora in ospedale. Qualcuno aveva posato una cartolina accanto alla penna sul comodino. La revoca alla nostra richiesta d’asilo era stata ritirata settimane fa e il permesso di soggiorno ci era stato accordato; ciononostante, non percepivo né la gioia né, tanto meno, la tranquillità che dovrebbe seguire un’agognata conquista. Raccolsi prudentemente la cartolina, esaminando passivamente le parole delineate con l’inchiostro verde sulla fotografia di un freddo paesaggio svedese. Ricordai un’infermiera farfugliare freneticamente riguardo a una raccolta fondi, promossa dai Paesi europei e indirizzata alla popolazione brasiliana, allo scopo di piantare nuovi alberi nei territori devastati dai frequenti incendi di quell’anno, in crescita esponenziale. Avevo balbettato un frettoloso sibilo di assenso alla sua richiesta di partecipare a un’empatica collezione di firme e dediche di conforto, indetta dall’ospedale e destinata ad attraversare l’oceano. Con le dita intorpidite, strinsi grossolanamente la biro e scarabocchiai il mio nome in un angolo del cartoncino, riproducendo le lettere arcuate attraverso movimenti riflessi. La scritta “Blair” risaltava sul bianco del retro della cartolina e delle lenzuola, l’inchiostro blu in rilievo come un’increspatura del mare. Lasciai cadere sbrigativamente la penna sul letto. Deglutii, cercando di mandare via il nodo in gola; il gesto atavico mi appariva incomprensibilmente complesso, come una melodia disarmonica poiché ci si è dimenticati una nota, tant’è che non riuscivo neppure a ricordare l’ultima volta in cui l’avevo compiuto con successo. Oramai, le lancette indicavano le 15:23; chiudo gli occhi, consapevole dell’incertezza del momento in cui le mie palpebre si sarebbero separate di nuovo. Prima di addormentarmi, le immagini del vasto incendio di Itacoatiara, viste qualche giorno prima in televisione, balenarono nell’oscurità. Per la prima volta, provai apatia al ricordo delle fiamme.

22°58′17’’S 43°01′54’’O

La luce filtrava dai delicati intrecci formati dagli esili rami ricoperti di verde. Grazie alle raccolte fondi, il bosco era destinato a riacquisire il proprio primitivo incanto in trent’anni anni e Itacoatiara avrebbe ricominciato a respirare. Indubbiamente, sperai di poterne godere la bellezza allora. L’ottimismo di ogni abitante del villaggio era incrementato quotidianamente dall’arrivo di alberi e di cartoline provenienti da una moltitudine di Paesi europei e statunitensi. Passeggiando attraverso i sentieri tagliafuoco, immaginai la storia dei nomi che erano associati all’immagine di alcune città e, talvolta, a una frase: Romania, Portogallo, Texas, Svezia, Los Angeles, Belgio, Tennessee, Italia… Layla, Courtney, Harper, Charlie, Cristina, Blair, Cordelia, Lukas… Ognuno con la propria storia, le proprie passioni e le proprie insicurezze, custodite nell’ingente diversità di parole e scritture differenti; la loro distante e confortante unicità era stata racchiusa nell’inchiostro di una firma durante due minuti rubati al moto, in costante evoluzione, della loro vita, la quale era stata, inconsciamente, destinata a incrociarne e intersecarne centinaia di altre. Non è una sgradita casualità che, in brasiliano, “vampa” si traduca in “resplendor”.

Il bosco di Itacoatiara non sarà stato il luogo più bello al mondo, ma, di certo, era destinato a diventare il mio nuovo luogo prediletto.

Tatiana Brignone

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