
La triste vita di Pino Allu (tratto da una storia vera)
Nato agli inizi degli anni sessanta in una famiglia fortemente disagiata, terzo di treallaseconda figli, Pino non avendo potuto studiare non ha mai saputo calcolare quanti fratelli aveva, ma erano certo tanti se suo padre decise che l’unica salvezza era emigrare in Toscana a Prato, ridente cittadina (ma solo perché probabilmente aveva una paresi).
Saranno stati quattordici minuti tra il sì e il no che la famiglia Allu era arrivata in città, insediandosi in uno scantinato polveroso e pieno di ragnatele di fianco a una gora (canale dove le aziende scaricavano i gli scarti lavorativi liquidi più inquinanti mai visti sulla Terra), che il padre, decisamente più analfabeta del figlio, disse a Pino: “ Aaargggghheeeeeaaarrggh???” *
Pino chinò lo sguardo preoccupato.
Il padre continuò: “guruuuuugugreeeaaaahhhhgggrrruuuto!!!” **
Pino colmo di sensi di colpa rispose “hai ragione babbo…” (io l’ho scritto con la acca, ma lui l’ha detto senza).
Il padre terminò con “ccccrrrraaaaaiiiiioooooggghhherrrre!” ***
(*non penserai mica di stare qui senza fare una sega, eh???
** hai già otto anni, ti do due giorni per trovarti un lavoro o a calci in culo ti butto in questa gora, vagabondaccio che non sei altro!!!”
***Brutto mostro, figlio illegittimo, sei ancora qui? Vedi di andar via veloce a cercare lavoro che devo trombare la tu’ mamma!)
Pino comprese allora quanto la povertà fosse brutta, ma senza perdersi d’animo cominciò a cercare lavoro. Capitò in una filatura senza sapere che cosa fosse una filatura, tipo la stragrande maggioranza di chi sta leggendo. Trovò un uomo grasso, lercio e sdentato che gli chiese cosa cavolo volesse. Lui disse “lavoro”. L’omone di dimensioni spropositate, in particolare nella pancia piena di peli sudati, gli chiese cosa sapeva fare. Pino ci pensò, poi ci ripensò e quando comprese che pensare era una cosa troppo complicata rispose: “so dire la formazione dell’Inter!”
“Assunto!” disse l’omone Misclèn e non perché era per l’Inter, ma perché Pino era la persona adatta per un tipo di lavoro che nessuno voleva fare.
Si narra che questa città offrisse lavoro a sfare, in special modo a chi sapeva contare solo fino a tre e non conoscesse le H (appunto).
Fabbriche sotto forma di capannoni di mille dimensioni (dal garage di casa a cattedrali in mattoni rossi di cinquemila metri quadri), come legate da un cordone ombelicale in un preciso processo produttivo, trasformavano la lana appena tosata in tessuti che vestivano mezzo mondo e necessitavano per i vari stadi di lavorazione di gente che svolgesse anche i lavori più umili.
Tra questi c’era il carbonizzo, il tintore, il follatore, il cardatore e molti altri. Ma ve n’era uno, il più umile di tutti, che nessuno aveva degnato di un nome ed era appunto quello assegnato a Pino.
Pino Allu seguì le indicazioni del Capo Filatura (l’omone): 1) sedici ore al giorno e paga dieci lire all’ora e ringrazia che ti si danno visto che ti si insegna un lavoro. 2) Seguire le indicazioni del capo e a ogni sgarrata una serie di schiaffi che quelli del suo babbo al confronto erano carezze per un dieci in pagella (caspita è la pagella? si domandò Pino).
Ogni giorno gli davano varie balle da quattro quintali l’una, di lana grezza, nylon, cotone, terital o altre fibre che doveva aprire e smistare secondo un ordine ben preciso e poi oliare con dosi precise di lubrificante al fine che le fibre mescolate potessero essere lavorate al meglio. Alle nove la sera quando usciva di filatura era letteralmente ricoperto di batuffoli di lana, nylon etc e unto come una bruschetta, così da sembrare un mostro notturno.
Ma Pino Allu era orgoglioso di sé stesso. A quella età già sosteneva la sua famiglia e, nonostante ogni sera s’addormentasse quindici secondi dopo essersi seduto a tavola e si svegliasse la mattina alle quattro senza aver mangiato, era felice.
Così tanto che l’omone dopo un paio di anni durante i quali l’aveva strizzato come un limone, gli domandò “Ma che cazzo c’hai da ridere?”
Pino si fermò un attimo, corrucciò gli occhi e sembrò pensare. Sembrò, perché la domanda gli parve così difficile che per non passare da grullo non rispose.
Il Capo Filatura (ancora l’omone) non essendo poi proprio un genio, non si domandò come mai non rispondeva, ma si convinse che Pino era un bell’operaio, di quelli su cui puoi contare. Decise che un giusto premio fosse di quello dare il suo nome al ruolo che svolgeva e che da allora fu chiamato “allupino”.
Pino Allu adesso è nella storia.
Dicono sia morto contento.
Allora è bene che cambi il titolo del racconto, togliendo la parola triste e che rifletta sul fatto che la qualità dell’esistenza è solo un punto di vista.
Marco Torracchi