Il borgo dai cento colori

4.9
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Tutti lo chiamavano “zio Carmelo”, non perché fosse zio per legami di parentela. No, quello era un modo rispettoso di rivolgersi a una persona in età, stimata e ben voluta.

Del resto a Centocase, borgo appunto composto da un centinaio, o poco più di case, poste su una piccola collinetta che si affacciava sul mare, si conoscevano tutti e zio Carmelo era forse uno fra i più anziani.

Un uomo minuto, ossuto, vispo, sulla settantina avanzata. Mani grandi e nodose che raccontavano il duro lavoro dei campi. Viso magro, con due occhietti curiosi; viso scavato da una ruga che si appianava quando salutava qualcuno, quando s’illuminava per un sorriso, quando ritornavano i suoi ragazzi per le ferie e in quella casa esplodeva la vita che cacciava via, per un po’, quel velo di malinconia che vi regnava.

Viveva da solo zio Carmelo da quando la sua Mariuccia se n’era andata, buon’anima. Aveva due figli grandi che si erano “fatti” la loro famiglia. Nicola il figlio maggiore, viveva in città e faceva il commerciante all’ingrosso di prodotti agricoli. Aveva un camioncino e faceva la spola dalle campagne, dove comprava i prodotti, ai negozianti, in quella cittadina dove ancora sopravvivevano le botteghe, dove i grossi centri commerciali non erano ancora arrivati.

Quasi ogni giorno Nicola, recandosi dai contadini, passava a salutare il padre, sempre di corsa e, qualche volta, all’andata, lasciava da lui il piccolo Carmelino di 8 anni che era una festa per il nonno. Poi, al rientro, passava a riprenderlo ma, se c’era una vacanza o una festività di mezzo, il ragazzo si fermava volentieri dal nonno e, nel borgo, si sapeva che, dal nonno era arrivato Carmelino.

Teresa, era la secondogenita di papà Carmelo. Lei si era trasferita all’estero, in uno di quei paesi in via di sviluppo, per seguire il marito che aveva trovato lavoro, come architetto, in una grossa cooperativa edile. Si stavano costruendo interi quartieri ex novo, con palazzine a basso impatto ambientale, con materiale ecosostenibile e con tutti i requisiti in grado di garantire un vero risparmio energetico attraverso l’utilizzo di fonti alternative di energia.

Avevano due bambini, più piccoli di Carmelino: Giulia di 5 anni e Paolo di appena 15 mesi. Ogni anno tornavano a casa dal nonno che si trasformava, diventava bambino con loro, riempiva il cuore fino all’orlo di emozioni che dovevano bastare fino all’anno successivo. Sperava di poterli avere vicini più spesso. Ma la situazione lavorativa in paese non era così allettante.

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Zio Carmelo curava la sua casetta come una creatura. Questa aveva su tre lati un po’ di terreno mentre, quello su cui si affacciava il bagno, poggiava su quella stradina, fatta di terra e grosse pietre, una via sterrata che portava alle case dietro e poi più su.

In fondo, in questa casa, c’erano le due camere che si affacciavano sul retro, in posizione nord-est. Le divideva un corridoio; qui, lateralmente, affiancato alla cameretta dei ragazzi e più vicino alla cucina, si apriva un locale, spazio adibito a lavanderia e seguiva subito dopo il bagno che prendeva luce da una finestrella alta che si affacciava, appunto, sulla strada laterale.

A sinistra, sul versante sud ovest, una grande cucina con balcone si apriva con vista sul mare; in un angolo il camino e, dal lato opposto uno spazio a elle con una poltrona che parlava del tempo che era stato, un tavolinetto e due sedie importanti, sicuramente appartenenti alla camera da letto matrimoniale, quella di buona fattura. Questo l’angolo dell’intrattenimento, di una chiacchierata con un amico davanti a un buon bicchiere di vino, l’angolo dei giochi per i ragazzi o dei momenti della pennichella, in solitaria.

Il portone d’ingresso portava al corridoio, e, appena dentro, in una nicchia a destra si notava una scaffalatura, multifunzionale, libreria, porta ninnoli, ritratti e giochini; più che altro un deposito di ricordi. Un insieme di mensole realizzate con assi di legno, piuttosto artigianali, ben fissate alle pareti e, a lato, un tavolino simil-scrittoio. Più avanti un divanetto che all’occorrenza poteva essere un lettino, quando la famiglia cresceva. Qui una grande finestra dava luce a tutto il corridoio ed era un affaccio sul mondo.

Non mancavano le piante sul balcone di questa casa, appena rialzata dal piano stradale; i gerani e le begonie si affacciavano dall’inferriata mentre una splendida bouganville fuxia ne avvolgeva mezza parete, come fosse un murale. Faceva da cornice a quella finestra dalle persiane marroni, un po’ screpolate, che raccontavano il trascorrere del tempo.

La bouganville si scorgeva già da lontano; era una attrattiva per il piccolo borgo, una bellissima macchia di colore, un richiamo non solo per le farfalle, ma anche per uccelli, api, lucertoline e forse qualche topino. Un faro che indicava la strada a chi voleva andare a trovare lo zio Carmelo.

Dietro la casa, l’arzillo anziano aveva creato un piccolo orticello e in un pezzetto di terreno un po’ più a sinistra, al confine con un’altra casa, accudiva Bianchina e Nerina, le due caprette con cui parlava volentieri e che spesso doveva sgridare perché, dispettose com’erano, non si accontentavano della buona erba che l’uomo coltivava e disponeva per loro, ma spesso sconfinavano nel terreno di lato perché si sa che “l’erba del vicino è sempre più buona!”     

In autunno zio Carmelo accompagnava le sue caprette da un paesano, più in là, verso la campagna e le lasciava lì per alcuni giorni perché facessero “allegra” compagnia al becco che l’amico aveva tra i suoi animali. Solo così si assicurava qualche agnellino da vendere e del buon latte per fare un po’ di formaggio per l’annata successiva. Con la pensione che gli dava lo stato non aveva di che scialacquare il buon Carmelo, quindi cercava di arrotondare!

Sapeva far quadrare i conti, quel che aveva se lo faceva bastare. Con la sua moto ape andava in paese a prendere le cose necessarie, soprattutto la bombola del gas e la legna. Si fermava a salutare gli amici, una partitina a carte al bar, un boccale di birra o un caffè e una sigaretta ogni tanto, soprattutto in compagnia. Era benvoluto da tutti.

Spesso scendeva giù verso il mare e si fermava volentieri a fare due chiacchere quando trovava qualcuno seduto sugli scogli, paziente e fiducioso, ad aspettare che qualche pesce, distratto e affamato, abboccasse. Succedeva che qualche volta tornasse a casa persino col pesce!

Era, la sua, l’età della pazienza, della quiete, dell’ottimismo ponderato ed oculato. Era quel tempo in cui l’orologio non si guarda. Si seguono i ritmi dettati dalla luce e dall’avvicendarsi delle stagioni. Carmelo li seguiva, infatti, quei ritmi come fa la natura che si sveglia con la primavera e dà il massimo in estate per calare dolcemente verso l’autunno, prima di scivolare nel sonno profondo dell’inverno. Vera metafora della vita.

Stagione di riflessioni, l’autunno, la terza età. Tempo in cui ci si guarda dentro accarezzando i ricordi, custodendo le preziose esperienze, non risparmiando gli slanci e le euforie, con equilibrio e pacatezza. E’ tempo di attese l’autunno; arriverà l’inverno e bisogna risparmiarsi ma non cedere all’inerzia. Godere invece a piene mani di quel sole che c’è, anche se un po’ più debole e sbiadito.

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Tre, quattro volte all’anno, saliva dal paese Nunzia, una giovane donna, molto stimata in paese, che dava una mano in famiglia facendo di tanto in tanto le pulizie nelle case dove si cercava la sua collaborazione. Da zio Carmelo faceva le pulizie, quelle più “grosse”, soprattutto quando si approssimava il tempo in cui arrivava la figlia Teresa con la sua famigliola.

Arrivava in bicicletta, Nunzia, mezzo con cui si spostavano quasi tutti in paese. Soltanto qualche motorino e qualche moto ape, oltre alle macchine agricole, solcavano quelle stradine del borgo, non ancora asfaltate, piccole trazzere di campagna, delimitate da muretti a secco, opera meravigliosa, di prestigioso ingegno, di mani di sapienza antica.

Nunzia arrivava a cavallo della sua bici, con le paffute guance rosse, cantando e sbuffando nelle salite. Faceva i mestieri di buona lena, legava un foulard ai capelli e la sua voce squillante, mentre lavorava, rimbalzava fin nelle case più su, quando apriva le finestre per pulire i vetri e far prendere aria ai materassi.

Le case del borgo erano disposte come pedine di una scacchiera, quasi affiancate, separate da muretti che ricamavano orli, rifinivano giardini, abbracciavano orti, custodivano la riservatezza, ma non creavano ostacoli ai rapporti umani. Più su oltre ai muretti, gradoni di grosse pietre, piantate con cura sulla terra, consentivano passaggi su più livelli. La maggior parte di quelle abitazioni rimanevano chiuse per gran parte dell’anno.

Ogni tanto arrivava Nunzia fin lassù ad aprire le finestre, soprattutto da Pasqua in poi, vuoi perché sarebbero arrivati i proprietari, vuoi perché le case venivano affittate ai vacanzieri. Solitamente arrivavano vacanzieri anziani perché quello era un posto dove si godeva della giusta tranquillità e si respirava quell’aria di mare, anche restando a casa, godendo di una vista che faceva bene al cuore!

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Quando finiva le faccende per cui era stata chiamata, Nunzia ritornava a casa stanca ma soddisfatta, inforcava la sua bici e riprendeva a cantare. Non ci si spiegava come riuscisse a mantenersi in equilibrio. La bicicletta era un’attempata graziella di remota memoria. Uscendo dalla casa di zio Carmelo la sua bici traboccava di ogni ben di Dio. Frutti della campagna e dell’orto, una bottiglia di latte, qualche pezzo di buon formaggio e una damigianina d’olio che tentennavano dentro il cestello, fissato sul lato posteriore della bicicletta. La discesa era davvero un’incognita, ma Nunzia reggeva bene il manubrio e nei punti più difficili scendeva dal sellino e spingeva a mano. La si sentiva arrivare Nunzia quando rientrava in paese.

In una di quelle tante volte in cui, la donna, era andata a fare i lavori grossi da zio Carmelo, lo trovò all’opera con carta vetrata, pennelli e vernice. Un cappellino fatto col giornale, sui pantaloni un càmice da lavoro costellato di macchie qua e là, e alle mani grossi guanti. Giornali dappertutto per terra, cavalletti e tavoloni. Insomma un vero e proprio finimondo.

Arrampicato sulla scala, quel temerario, tentava di strappare dai cardini una mezza persiana. Meno male che era arrivata Nunzia giusto in tempo per dargli una mano e impedirgli che, dondolando, andasse a rotolare per terra, addossandosi la finestra.

-Che volete fare? – gli chiese la donna.

Carmelo abbozzò un mezzo sorriso di compiacimento e, traballando ancora, si ricompose, cercò di trovare il baricentro e pose la mezza persiana sui cavalletti.

-Adesso vedrai! -rispose con l’aria di chi sta facendo una birichinata.

E si mise a scartavetrare quella mezza imposta prima da un lato, poi dall’altro, prima con una carta vetrata a grana più grossa, poi più sottile. Si alzò nella stanza una nuvola di polvere fastidiosa che, un’arietta provvidenziale, entrata dalla finestra aperta, priva di imposte, spazzò via. Così fece con la seconda mezza imposta e, dopo il primo passo, la via al restauro era lì lì per arrivare.

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Prese vernice e pennello, regolò la giusta diluizione, diede un’occhiata di complicità alla donna e cominciò a dare delle robuste pennellate di azzurro a quel legno che soffriva di un’atavica arsura.

Aveva una tale voglia di rinnovare, di illuminare, di dare corpo alle sue idee che non si accorse che si era fatta l’ora di pranzo. Preso com’era da quel lavoro, chiese a Nunzia se poteva fermarsi fino a sera così da preparare qualcosa da mettere sotto i denti, per tutti e due, giusto per placare quei morsi che gli giungevano, brutti segnali, dallo stomaco.

Di fermarsi, quel giorno, zio Carmelo non voleva sentire ragione. Finì l’ultima pennellata che era sera tarda. Nunzia era tornata a casa prudentemente prima che il buio l’avvolgesse tra i suoi veli ma, prima di andarsene, aveva aiutato l’uomo a sistemare dei teli e dei tavolati in modo da chiudere in qualche modo quell’apertura. E meno male che quelle erano belle giornate, tiepide, di fine primavera.

Aveva già acceso le luci in casa zio Carmelo e si mise a riordinare, quel che era possibile; si apprestò a consumare una cena spartana ma, stanco morto, si addormentò sul tavolo, come un sasso. Si risvegliò per andare in bagno e, questa volta continuò il suo sonno ristoratore nel lettone, decisamente più comodo.

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Era d’accordo con Nunzia che sarebbe tornata il giorno dopo e così, con l’entusiasmo di un ragazzino, confortato dalla presenza della donna, finì il lavoro iniziato. Diede una seconda mano ai listelli di quella persiana concedendole una seconda giovinezza e, quando furono asciutte tutte e due, insieme, le rimisero dentro i loro cardini.

L’emozione fu grande quando li vide al loro posto. Quei due occhi, azzurri come il cielo che stava lassù, più chiari di quel mare che c’era laggiù, diffusero di colpo una dimensione nuova alla casa di Carmelo che, tra gerani, begonie e bouganville avevano acceso una parete dando vita a qualcosa di indescrivibile.

Ci fu un via vai di biciclette, di moto ape, di amici e di curiosi. Quella casa mise in moto altri lavori in altre case e, come in un domino, si colorarono tutte e non solo nelle finestre, e non solo di azzurro ma anche di giallo, di arancione e di verde, tutti colori pastello, in armonia le une con le altre, in una gara non a distinguersi e sopraffare ma, al contrario, ad accompagnare, alternare, integrare.

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Inutile dire che quelle finestre lassù si aprirono e rimasero aperte. Giunsero turisti, arrivarono giovani, artisti e stranieri: chi comprò, chi aggiustò, chi creò. I giardini fiorirono, i muretti a secco furono valorizzati e restaurati. Per quelle strade nacquero progetti di porre selciati nel rispetto dell’ambiente circostante, con l’attenzione volta a non snaturare le caratteristiche del posto. Qualche abitazione fu adibita a laboratorio e furono aperte botteghe, officine e negozi.

Anche Nicola, il primogenito di zio Carmelo, smise di fare su e giù a sprecare gasolio. Aprì lui stesso, nel borgo, una grande bottega di frutta e verdura. Prendeva giornalmente tutto l’occorrente dai contadini e li metteva in bella mostra nella sua bottega con buona pace dei prezzi che si ridussero notevolmente, saltando un passaggio.

Zio Carmelo non credeva ai suoi occhi; dispensava consigli a destra e a manca. Si muoveva saltando come una cavalletta da una casa all’altra. Era ringiovanito, aveva una luce diversa negli occhi. Quella ruga, che gli solcava il viso e gli conferiva un’aria malinconica, si era appianata. Aveva un grande dono quell’uomo vicino all’ottantina, quello di farsi ascoltare ma, soprattutto quel dono raro che è il saper ascoltare.

Ascoltava, assorbiva e faceva suo. Mescolava con la sua esperienza e proponeva e le sue idee erano sempre prese in considerazione, perché non erano mai campate in aria; erano idee che poggiavano su basi solide. Era il passato e il presente che prendevano forma e insieme guardavano al futuro.

Quando arrivò la figlia in vacanza col marito e i bambini fu una gioia infinita vederli entrare a far parte di quel progetto di espansione che stava veicolando per il borgo. Si misero in campo anche loro fattivamente e, assieme agli altri, portarono avanti il resto dei lavori nella casa. Portoncino, balcone e facciate, rinacquero. Quell’affresco che si era messo in moto fu completato.

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Il miracolo avvenne quando il marito di Teresa, il genero architetto, entrò nel progetto con la sua professionalità, le sue competenze e le sue esperienze maturate all’estero. E con la famiglia non ebbe più bisogno di andar via. Comprarono la casetta accanto a quella del padre e ne fecero un gioiello, un modello da imitare.

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Il ritorno e il ripopolamento della cittadina, il diffondersi dell’iniziativa nei borghi abbandonati, con un sentimento non di rivalità ma di gemellaggio; il ripristino dell’artigianato e del commercio territoriale, il concetto di cooperazione che prese il sopravvento, perché i piccoli non venissero divorati dai grandi, sono stati passi, compiuti piano piano, uno dopo l’altro, col tempo, con le giuste garanzie, con avvedutezza e consapevolezza.

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Oggi il borgo delle 100 case, dalle finestre chiuse, dai colori sbiaditi dal disuso e dall’abbandono, dall’aria silenziosa e triste non c’è più.

Anzi c’è ma non è più lo stesso. Oggi non si chiama più Centocase ma prende il nome di “Il Borgo di Zio Carmelo” in attesa di trovare un nome adeguato, scelto dai cittadini, in memoria di questo grande uomo che, adesso non c’è più. Un grande giovane vecchio che non ha vissuto la terza età aspettando la fine ma l’ha attraversata godendola a piene mani.

Esempio per tanti, monito per tutti!

Angela Badalucco

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